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Nella mia esperienza di divulgazione scientifica, molto spesso le persone mi hanno fatto presente che “se avessero avuto qualcunə che spiegava le cose così a scuola, adesso magari avrebbero fatto altro” nelle loro vite. All’inizio, quando ancora non insegnavo, era un commento che mi faceva piacere. Quando ho iniziato a mettere piede a scuola da docente ho ripensato molte volte a quel commento e mi sono preoccupato.
Già, perché la scuola, ho scoperto da docente, funziona ancora come la scuola che io, e il mio pubblico, ho fatto: si spiega, si fanno le verifiche e si prende il voto. In questo classico vortice il laboratorio di fisica finisce in due strade: viene snobbato oppure viene usato per ottenere un voto.
E purtroppo, nella seconda opzione, anche il laboratorio è soggetto al solito stress e ansia da verifica, sebbene sia considerato sempre preferibile alle verifiche in classe secondo lə ragazzə. Ma la questione può avere mille sfaccettature e in questo post vorrei parlarne.
La mia prima volta in laboratorio, da studente
La prima volta che io sono entrato in un laboratorio di fisica a fare un esperimento purtroppo non è stata al liceo, ma subito dopo. Siamo nel 2005: esame di “Esperimentazioni di Fisica I” del corso di laurea triennale in astronomia. Mi trovai di fronte, insieme a un mio compagno di corso, la prova del calorimetro. Mi ricordo che era dopo pranzo e che avevamo solo circa due ore (forse meno) per fare tutto e consegnare.
Devo essere estremamente sincero. Quella fu la mia prima volta in laboratorio ma vi assicuro che desiderai fortemente fosse anche l’ultima. Non fu così: feci altri esami di laboratorio e non andarono benissimo. Mi convinsi fortemente del mio “intuito” teorico. Ma, come magari racconterò meglio un’altra volta, mi sbagliavo anche in quel caso. Soprattutto, mi sbagliavo a odiare così pervicacemente il laboratorio di fisica.
Era anche un qualcosa di insostenibile per me: volevo fare il fisico ma desideravo solo trincerarmi in calcoli ed elucubrazioni mentali.
Tutto è cambiato, poi, un giorno. Il merito è stato un po’ del caso, un po’ di alcuni ragazzi, un po’ dell’Appennino Bolognese.
La mia prima volta in laboratorio, da docente
A Porretta Terme ho iniziato a lavorare nella scuola pubblica. Il giorno è l’8 ottobre 2020, dopo il terribile lockdown e prima di un nuovo disastro pandemico all’orizzonte. Negli anni precedenti avevo fatto diverse cose, tra cui lavorato due anni al liceo scientifico di una scuola paritaria di Bologna. Quindi non ero a digiuno da aula e classe, ma entrare nella pubblica – sempre da precario ovviamente – è stato un momento di grande emozione per me.
Insegnavo fisica al tecnico meccanico e informatico. È stata un’esperienza veramente peculiare, differente da ogni lavoro che avessi fatto prima, sia sul piano umano sia sul piano lavorativo. Non voglio oggi raccontare quell’anno così complesso – magari un’altra volta – ma voglio parlare del fatto che per la prima volta avevo la possibilità, e in qualche misura anche l’obbligo, di portare le mie classi scalmanate a fare laboratorio di fisica.
Qui, in queste ore, ho fatto una scoperta piacevolissima: in laboratorio di fisica le classi non erano scalmanate. Uh, forse c’era qualcosa di magico tra i buchi della rotaia a cuscino d’aria? Chissà. Comunque sia, tra coprifuoco, zone rosse, lockdown e altri fatti personali, alla fine ho pensato che portare sempre i regaz in laboratorio poteva essere davvero una buona idea. Ma ci voleva un piano ben preciso, un piano educativo, didattico.
Purtroppo non conoscevo ancora bell hooks all’epoca. Peccato, perché mi avrebbe aiutato moltissimo. Allora andai proprio a sentimento. Decisi di far decidere a loro che cosa fare di un particolare esperimento, come curvarlo alla propria curiosità.
Ovviamente, fu un fallimento totale. Sebbene ci divertimmo in laboratorio e sul piano umano i regaz davvero erano fantastici, tuttavia i miei propositi didattici andarono a farsi friggere. Ingenuamente – ci sono molti momenti in cui sono ingenuo – pensai fosse colpa dei ragazzi. Mi pento ogni giorno di averlo pensato: era colpa mia che non avevo teorizzato ancora bene quello che avevo in mente di fare e che ora vi racconto per come lo metto in pratica oggi, nel 2022-2023.
A che serve il laboratorio di fisica?
Per prima cosa, partiamo dallo stato attuale di una qualsiasi scuola pubblica italiana tipica, da che cosa succede normalmente in un’esperienza di laboratorio di fisica.
Dunque, ci sono due possibilità. Partiamo dall’ipotesi WOW!. Questa ipotesi configura il laboratorio come un momento di assoluta meraviglia, ritenendo che lə ragazzə non siano in grado di appassionarsi se non vedono “cose fighe”.
Poi c’è l’ipotesi STACHANOV. Secondo questa versione, se una classe ha due ore di laboratorio di fisica, alla prima ora prende le misure, alla seconda ora scrive la relazione. Poi il gruppo di studenti consegna, esce il voto e nessuno copia, o almeno così dicono.
A mio avviso entrambe le ipotesi sono a dire il vero anti-laboratorio. Per un motivo molto semplice: non sono processi democratici e non mostrano neanche come funziona la scienza, la fisica – cosa che invece le classi dovrebbero sperimentare davvero in una didattica di laboratorio.
Ci dimentichiamo sempre di una cosa, a mio avviso: il laboratorio di fisica lo stiamo facendo a scuola. In un luogo in cui si fa cultura e tramite ciò si cerca di attuare la Costituzione democratica (in particolare l’articolo 3 già citato varie volte in questa newsletter). Ora, se questo è ciò che fa la scuola, allora perché rendere il laboratorio di fisica una performance? Carə colleghə, a voi lo chiedo. Rispondetemi, please.
Se faccio fare le cose come il mio stramaledetto esame universitario, che speranze ho di fare un lavoro educativo? Zero. Figurarsi poi educativo in senso democratico. Dobbiamo ripensare un po’ tutto insomma.
That WOW…that damned WOW
Partiamo dal laboratorio WOW. Per carità, non ci vedo nulla di male a fare un po’ di scena, qualche scintilla, qualche trucchetto di “magia” fisica. Il punto, ancora una volta, è: perché lo facciamo? Stimolare la curiosità è una motivazione nobile, super-nobile. Ma non dobbiamo dimenticare, secondo me, che quando mostriamo una cosa figa di fisica stiamo, appunto, mostrando. Non c’è un lavoro educativo all’opera. Quindi, dico io, benissimo far vedere una gabbia di Faraday dal vivo o altre cose scintillanti, ma non usiamole mai come esperienza di laboratorio nel senso educativo che sto cercando di descrivere.
Che siano dimostrazioni pratiche, parte di lezioni: ma per favore non riduciamo il lavoro educativo del laboratorio di fisica a una passività didattica. Usiamo queste dimostrazioni come stimolo, come punto di partenza per una riflessione ma non pensiamo che esauriscano il lavoro in laboratorio. Sarebbe un errore gravissimo dal punto di vista didattico in senso democratico. Sarebbe di nuovo l’autoritarismo di unə docente che mostra, dall’alto, una conoscenza (seppur spettacolare) a una massa di persone. Se le cose fighe di fisica sono spunto per una discussione, una riflessione, un dibattito ragionato allora possono essere parte di un processo di didattica democratica molto efficace. Altrimenti, lo dico senza timore, sono semplicemente fini a sé stesse e al narcisismo del prof: una maledizione.
(P.S. Una maledizione da cui, tra l’altro, non è esente neanche la divulgazione scientifica. Ma questa è un’altra storia, magari ne parliamo un’altra volta).
Il laboratorio solo come performance
L’altro aspetto comune è quello di vedere il laboratorio solo come un momento “da fare” e pure veloce perché il treno del programma corre. Ma perché il laboratorio di fisica è quasi sempre performativo nella scuola di oggi? Secondo me le ragioni sono diverse.
I ragazzi e le ragazze fanno una gran fatica a schiodarsi dall’aspettativa del voto. Ora, capite benissimo che il laboratorio democratico che vi ho presentato nel paragrafo precedente è impossibile da valutare negativamente. Questo può portare anche, a volte, a non accettare segnalazioni di errori di metodo sebbene tutta l’esperienza sia stata molto positiva. Ciò accade perché si dà al voto un’importanza troppo ampia.
Molti colleghi e molte colleghe fanno il laboratorio in due ore perché non desiderano che ci sia la possibilità che la relazione finale di laboratorio sia copiata. Esattamente come per il mio esame universitario. Ma se da una parte un laboratorio democratico come ho proposto evita, nella stragrande maggioranza dei casi, il bisogno di copiare, d’altra parte richiede diverse ore e diverse settimane e non tuttə vogliono usare tante ore di lezione per un laboratorio di tipo più democratico a scapito di quello, solito, performativo.
Purtroppo non sempre i laboratori delle scuole italiane sono adeguati e questo può essere un problema. Inoltre, a volte, per esempio in quinta scientifico, l’esame diventa così opprimente che diventa difficile dedicare tante ore al laboratorio. Un laboratorio veloce e performativo fa passare l’idea che si sia dato un piccolo “assaggio”, che “almeno una volta questa cosa l’hanno vista”. Come dire: già è tanto. Questa è un’idea molto comune tra prof di fisica.
E quindi, in sostanza, molto spesso il laboratorio viene inteso solo come un’alternativa didattica, non come un lavoro educativo “vero” e democratico. Addirittura, pensate, nelle scuole spesso le relazioni di laboratorio sono valutate con un peso minore rispetto alle verifiche e alle interrogazioni. Ma perché? Per quale motivo il lavoro educativo del laboratorio conterebbe di meno? C’è un’evidente retropensiero per cui lo studio individuale ha una importanza maggiore e verifiche e interrogazioni, eh, non mentono su questo.
Ma è davvero così? Perché un lavoro di gruppo, un’esposizione ordinata su un esperienza pratica dovrebbe valere di meno? Naturalmente, se diamo solo 2 ore per fare un’esperienza di laboratorio, beh, lə ragazzə non ci saranno mai abituatə, come me all’esame universitario. E quindi tenderanno a salvarsi la media, a copiare. Più che comprensibile. Si darà la colpa a loro che copiano la relazione o si fanno aiutare dai genitori: ma è davvero colpa loro? Riflettiamoci.
D’altro canto fare il laboratorio solo per dire “ah, io sono figo perché faccio solo laboratorio” non basta. Dipende come si fa laboratorio: lə ragazzə devono avere la possibilità di sperimentare, di essere scientificamente creativi, di confrontarsi con problemi per risolverli, oppure per non risolverli tanto chissene, l’importante è almeno provarci. Oh, non è che ogni volta che un gruppo di scienziatə va in laboratorio fa una scoperta eh! Il mondo reale è esattamente il contrario: ci sono sempre problemi, le ricerche scientifiche richiedono tempo, riflessione, pazienza.
Fare il laboratorio in poche ore con tutto allestito, mostrare cose fighe già preparate: tutto questo non è la realtà di una quotidianità del mondo della ricerca scientifica. Mancano gli sbagli (tanti), il confronto e la riflessione tra pari, l’analisi dei risultati fatta a mente fredda. Ci lamentiamo sempre che ‘sti giovani sono abituati a tutto subito, ma poi noi prof pure li istighiamo a sbrigarsi e fare veloce solo perché vogliamo un voto subito. Che senso ha? Nessuno ovviamente.
Ci vuole un laboratorio di fisica democratico
Ma allora, che fare? Le ore di laboratorio non possono essere una o due. L’attività di laboratorio può avere come effetto la produzione di un documento scritto in gruppo (la relazione di laboratorio) ma non può essere la relazione l’obiettivo dell’esperienza di laboratorio. Bisogna, come ho già detto, ripensare tutto.
Il laboratorio di fisica permette di esplorare l’essenza della fisica: il processo di misura e confronto di errori di misura. Si raccolgono dati, ci si inventa modalità per raccoglierli, si possono creare arnesi e costruzioni per ottenere questi dati. Si usano strumenti, si considerano errori. Si può sbagliare, le cose sicuro non torneranno. E allora bisognerà pensarci su e magari ripetere l’esperimento in modo diverso per provare a mitigare gli errori fatti, se si riesce. Il laboratorio, insomma, non può essere un’esperienza one-shot, a colpo secco: semplicemente, non è un laboratorio di fisica, è, lo ripeto, una performance scolastica. Si prende un aspetto culturale, la fisica, e se ne estrae una valutazione. Cosa c’è di educativo in tutto questo? Niente.
Quando porto la classe in laboratorio facciamo così: per prima cosa si dividono autonomamente in gruppi da 3-4 persone (a seconda del numero totale di persone). Poi subito dico che torneremo in laboratorio per varie settimane a lavorare sempre sullo stesso esperimento (tra poco spiego meglio perché). Infine espongo un aspetto di un problema che loro già conoscono teoricamente, perché l’abbiamo visto in classe. Infine prendono confidenza con attrezzi e strumenti di misura per capire come realizzare ciò che abbiamo deciso insieme a parole; è normale che una sola giornata di laboratorio non può bastare e quindi ci torniamo più volte fino a quando il lavoro non è finito. Lavoro finito vuol dire relazione compresa: perché non tutte le persone possono permettersi di incontrarsi extra-scuola quindi ritengo sia compito della scuola la mattina usare il tempo a disposizione per far scrivere loro la relazione (naturalmente chi vuole può “anche” incontrarsi il pomeriggio se lo ritiene opportuno). Inoltre la mia presenza e la mia supervisione fanno da garanzia per loro.
Faccio un esempio concreto, perché secondo me rende meglio.
Per esempio, un paio di anni fa ho portato una classe a lavorare sul moto parabolico. Il primo giorno di laboratorio abbiamo ripassato insieme alcuni aspetti fondamentali: cosa potremmo misurare, cosa potremmo confrontare con la teoria fatta in classe.
Un aspetto sempre gettonato è: controllare che il tempo di caduta da un tavolo di una pallina lanciata con velocità orizzontale e tangente al tavolo è lo stesso di una pallina che, dalla stessa altezza del tavolo, cade solo verticalmente. Sarà davvero così anche quando andiamo a misurare? Naturalmente qui si aprono varie questioni. Per fare le misure devo poter lanciare la pallina orizzontalmente varie volte, per fare poi una misura media. Ma se uso semplicemente la mano per spingere la pallina dal tavolo, ogni volta esercito una spinta diversa e quindi non posso confrontare i dati. Argh! Bisogna inventarsi un modo per lanciare la pallina sempre nello stesso modo.
Ma, ehi, siamo in un laboratorio di fisica: ci sono un sacco di attrezzi, strumenti, usiamoli no? Ogni gruppo è stato lasciato libero (naturalmente ci sono sempre io a supervisionare eh) di ragionare su come fare gli esperimenti. A volte, addirittura, qualche gruppo, mentre cercava un’idea per realizzare l’esperimento iniziale, a furia di ragionare si accorgeva che avrebbe potuto anche misurare qualche altra cosa (per esempio: la conservazione dell’energia). E allora mi chiedevano: prof, possiamo fare, invece del moto parabolico, con lo stesso tipo di esperimento la verifica della conservazione dell’energia?
La mia risposta era: potete fare quello che volete purché lo facciate in modo scientifico. E purché documentiate tutto quello che fate in una relazione dettagliata, con misure riportate bene, strumenti usati, conti, tecniche usate, spiegazioni di ogni singola cosa che fate.
Ovviamente, un paio di ore in laboratorio non bastavano. Servivano più giorni e più settimane. Non solo per tempi tecnici ma anche perché, nel frattempo ogni gruppo rifletteva su ciò che avrebbe potuto fare, su come potrebbe farlo e sulle motivazioni.
Inoltre, ogni gruppo faceva sostanzialmente un lavoro diverso dall’altro. Ma non solo: non esisteva un risultato giusto dell’esperienza di laboratorio. Esisteva solo una metodologia giusta. Io chiedevo solo che si rispettasse Galileo Galilei. Magari i gruppi avrebbero trovato errori giganteschi, cose assurde che non tornavano neanche per sbaglio con la teoria. E va beh: qualora avessero fatto tutto con onestà intellettuale e avessero documentato il loro lavoro, beh, avrebbero lavorato come se avessero fatto pura ricerca scientifica. Avrebbero riflettuto, studiato, discusso, magari anche animosamente, ma che importa: alla fine avrebbero trovato una sintesi, avranno scritto un documento che esprime i risultati di un gruppo che ha provato a fare qualcosa e ha avuto tutto il tempo per provarci. Così, alla fine, è andata. I lavori di ogni gruppo sono stati perspicaci, dettagliati, personalizzati. Niente competizione, solo tanta voglia di cercare di fare bene il proprio lavoro. È andata bene quella volta.
Riassumendo…
Si propone un’idea di esperimento (o più idee) che poi verranno discusse dai vari gruppi (e chi vuole può modificarle se lo ritiene opportuno);
Non c’è un limite di ore in laboratorio: all’inizio si fanno tentativi e si prende confidenza con strumenti e attrezzi; poi via via nelle varie settimane prende forma l’esperimento e la raccolta dei dati. Inoltre così l’esperimento si può sempre rifare se vengono in mente nuove idee.
Una volta raccolti i dati, sempre in laboratorio, si procede alla stesura della relazione sotto la mia supervisione.
La mia supervisione è fondamentale per gestire gli attrezzi e gli strumenti, per dubbi o domande. Inoltre io giro tra i banchi del laboratorio seminando dubbi e ulteriori domande per stimolare la riflessione mentre lavorano. Infine, mentre giro, ricordo di tenere traccia di tutto, anche delle idee sbagliate, quasi di verbalizzare le discussioni: in questo modo le idee di tutte le persone del gruppo hanno pari valore e solo con il lavoro di analisi fatto durante la scrittura della relazione poi si crea una sintesi. Le idee giuste vengono descritte alla pari di quelle sbagliate ma motivando scientificamente perché le prime sono giuste e le seconde sbagliate. Tutto questo richiede almeno due ore di laboratorio a settimana e quindi circa 5 settimane.
Fisica in un laboratorio democratico, proviamoci!
Proviamo a fare un laboratorio di fisica democratico. Sarà faticoso, impegnativo. Oserei dire: rivoluzionario, soprattutto se pensiamo alla staticità della tradizione scolastica attuale.
Attenzione però, bisogna dirlo, a non scambiare innovazione tecnologica con una metodologia laboratoriale democratica. Avere strumentazione moderna e fare tante ore di laboratorio potrebbe non essere efficace se alla quantità non si affianca una qualità, intesa come metodologia che mette al primo posto il dibattito, la riflessione, l’analisi scientifica svolta con i tempi giusti e con appropriata pazienza, la scrittura nero su bianco, con calma e accuratezza, delle processo creativo nato da una discussione collettiva. E, ovviamente, se mette in secondo piano il voto numerico in favore di una valutazione fatta di feedback personalizzati.
Naturalmente, tocca precisarlo, quello che propongo non è la soluzione. È, vale la pena ribadirlo come già fatto per interrogazioni e verifiche, un timido tentativo, anche piuttosto banale forse mi viene da dire, di stanare le contraddizioni insite nella pratica comune e provare a inventare nuove prassi educative, dato il complesso contesto. Ma se la banalità democratica di questo mio approccio può anche solo scalfire la tradizione performativa, spesso personificata da coriacei colleghə, allora sono contento.
Il laboratorio democratico ha assolutamente senso: le nostre classi potranno essere creative, provare, riprovare, sbagliare serenamente, spiegare e mettere alla prova, tutto con il tempo necessario che ci vuole.
L’educazione democratica, sia in classe sia in laboratorio è nettamente una scelta di parte. Precisamente: dalla parte della Costituzione. Ricordiamoci sempre che lavoriamo in una scuola ancorata a metodi tradizionali e poco efficienti. Ogni deviazione – che poi in realtà, ripeto, è un’attuazione della Costituzione! – dalla tradizione è vista come un sollievo dai ragazzi e dalle ragazze.
Certo, spesso qualcunə vede il laboratorio democratico come un’occasione per fare poco; ma questo non deve demoralizzarci. Sono certo che, oltre alle metodologie didattiche democratiche, un costante dialogo per provare a spiegare quello che si vuole fare, lasciando anche spazio a nuove idee e dibattito (quindi un’ulteriore aggiunta di democrazia alla propria didattica) permette di trovare la quadra caso per caso, classe per classe, scuola per scuola.
Fidiamoci della democrazia e di ciò che possiamo fare in un luogo così contraddittorio e conflittuale come la scuola. Da queste contraddizioni e da questi conflitti nascono sempre buone prassi, se si ha pazienza, voglia di mettere in discussione ogni giorno il proprio lavoro.
Ovviamente non sono sempre rose e fiori. Anzi. La vita di ogni giorno in classe è appunto conflittuale sotto ogni aspetto e le condizioni possono variare sensibilimente non solo da scuola a scuola ma anche da classe a classe.
Ma come dice il grandissimo Paolo Conte:
“…era un mondo adulto, si sbagliava da professionisti…”