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L’anno scolastico italiano 2025/2026 è cominciato o sta per cominciare in tutte le regioni e la novità più grossa riguarda senza dubbio il divieto dell’uso degli smartphone nelle scuole di ogni ordine e grado. Infatti, dopo la circolare dello scorso 11 luglio 2024 per gli altri gradi di istruzione, con una nuova circolare emanata il 16 giugno 2025, il Ministero dell’Istruzione e del Merito vieta l’uso degli smartphone a scuola anche alla secondaria di secondo grado.
Per come è scritta la circolare, la motivazione che ha spinto il Ministero a emanarla sembrerebbe essere una ricerca dell’OCSE del 2024 dal titolo: “From decline to revival: Policies to unlock human capital and productivity”.
In questa ricerca si nota che negli ultimi 30 anni c’è stato un calo della produttività nei paesi OCSE; inoltre si nota che c’è stato anche un calo della crescita del “capitale umano”, ovvero il modo osceno in cui l’OCSE chiama il valore di “competenze” che ogni persona “immagazzina” durante il suo percorso di studi.
La cosa che provano a fare in questa ricerca citata dalla circolare ministeriale è mostrare che esiste un rapporto causa-effetto tra il calo della produttività e il calo della crescita del capitale umano degli ultimi decenni. Per misura il calo della crescita del capitale umano sono usati, senza troppa sorpresa, i test PISA che si fanno nelle scuole ogni tre anni.
Naturalmente, se due cose calano nello stesso periodo di tempo non vuol dire per forza che siano l’una conseguenza dell’altra. Correlation is not causation. Può essere semplicemente un caso. La ricerca citata nella circolare ipotizza che esista questo rapporto causa-effetto e, secondo altre ipotesi numeriche, arriva a calcolare, addirittura, che il calo della crescita del capitale umano ha causato il 40% del calo della produttività in Italia. Tradotto: secondo l’OCSE la produttività in Italia è calata per una grossa fetta a causa della scuola.
Il passo successivo che fanno nella ricerca citata nella circolare ministeriale è guardare come cambiano i risultati dei test PISA a seconda che lə studenti usino più o meno attivamente lo smartphone nella vita. La ricerca giunge alla conclusione, come potete immaginare, che chi usa lo smartphone fa meno punti ai test PISA.
E così la concatenazione di cause è servita: bisogna ridurre l’uso dello smartphone così si andrà meglio ai test PISA e se si andrà meglio ai test PISA aumenterà poi la produttività e alla fine qualcunə farà più soldi (dico qualcunə perché di sicuro non li faremo noi insegnanti…).
Ora, a parte la forzatura evidente del rapporto causa-effetto tra calo della produttività e della crescita del capitale umano (nella ricerca i condizionali si sprecano, giustamente, pur essendo una ricerca dell’OCSE…), non si può trascurare che vietare lo smartphone a scuola non può far altro che in realtà peggiorare l’uso sfrenato dello smartphone fuori da scuola, dove il Ministero non può imporre divieti (per fortuna!). Certamente evitare che lə studenti non usino lo smartphone per almeno una parte della giornata può sembrare un fatto importante. Se da una parte il problema della dipendenza tecnologica esiste (e nella circolare perlomeno si richiama un rapporto dell’Istituto Superiore della Sanità, ma solo dopo la ricerca dell’OCSE), tuttavia non si può trascurare che così la scuola si scarica di una sua responsabilità sociale: se vogliamo creare le condizioni per un approccio critico, anche noi docenti dovremmo farci carico di affrontare didatticamente (e politicamente, visto che nella circolare si richiama l’OCSE) la questione.
Il problema sociale e di salute va certamente riconosciuto insomma, visto che riguarda non solo chi è adolescente, ma anche noi persone adulte e coinvolge in primis i genitori, che sono coloro che poi effettivamente acquistano gli smartphone a tutta la famiglia.
Ora, sebbene questa circolare magari sia solo una misura di propaganda, tuttavia le parole sono importanti e nella circolare, invece di parlare di didattica, il Ministero richiama esplicitamente i concetti di produttività e di capitale umano; nel frattempo, in questi ultimi decenni, governi di ogni parte politica hanno demolito la scuola pubblica tramite uno sfrenato processo di aziendalizzazione (a.k.a. autonomia scolastica, legge n. 59 del 15 marzo 1997 e successivo regolamento tramite DPR 275 del 1999).
Ma non è finita. La circolare del 16 giugno afferma che “resta inteso che l’uso del telefono cellulare sarà sempre ammesso nei casi in cui lo stesso sia previsto dal Piano educativo individualizzato o dal Piano didattico personalizzato come supporto rispettivamente agli alunni con disabilità o con disturbi specifici di apprendimento ovvero per motivate necessità personali.”
Praticamente questa frase dimostra che c’è ancora tanta strada da fare sull’inclusione, nei fatti. Anziché lavorare didatticamente per una classe in cui le differenze sono un vantaggio della piccola comunità, il divieto dell’uso degli smartphone rischia di far aumentare lo stigma già spesso presente nelle aule. Magari è solo una mia esperienza, ma mi è capitato moltissime volte di sentire ancora discorsi a volte dispregiativi verso chi usa mappe o appunti come da piano didattico personalizzato, non solo dimenticando che le persone con DSA non hanno problemi cognitivi, ma anche pensando con pietismo le persone che hanno un PDP (per non parlare dei PEI). Il contenuto della circolare del 16 giugno su questo punto non penso vada affatto in una direzione inclusiva, anzi proprio l’opposto dato il contesto generale medio già in essere (ma ripeto, magari è solo una mia sensazione questa).
Comunque, mi pare che di nuovo, anziché pensare a interventi in grado di far star bene tuttə, aumentano inutilmente paletti e distinguo, rendendo ancor più difficile il lavoro di tutte lə insegnanti in aula.
Ma non solo. La circolare afferma subito dopo che: “analogamente, l’utilizzo del telefono cellulare rimane consentito qualora, sulla base del progetto formativo adottato dalla scuola, esso sia strettamente funzionale all’efficace svolgimento dell’attività didattica nell’ambito degli specifici indirizzi del settore tecnologico dell’istruzione tecnica dedicati all’informatica e alle telecomunicazioni.” (e notare l’uso dell’avverbio “analogamente” subito dopo la frase sui piani didattici personalizzati).
Qui si parla esplicitamente di istruzione tecnica, scuole in cui tra l’altro si fa una quantità sterminata di ore di PCTO. Secondo il Ministero qui si può chiudere un occhio sul proibizionismo. Forse perché, lo dico a metà tra il serio e il provocatorio, certe scuole hanno come obiettivo principale solo l’immediata immissione nel mercato del lavoro e quindi è importante che sappiano usare le tecnologie, ma solo nel modo che serve alle aziende che fanno progetti in queste scuole?
Inoltre, negli ultimi anni sono arrivati con il PNRR soldi a pioggia per l’acquisto di dispositivi tecnologici. Dispositivi che verranno usati nelle aule per fare lezione. In questo caso usare Internet e la tecnologia quindi va bene? Per non parlare poi dell’Intelligenza Artificiale. Lavorare con ChatGPT o DeepSeek non influirà sul benessere psico-fisico dellə studenti? Perché gli smartphone no, ma invece si potranno usare tablet e PC? E se si fa didattica così assegnando dei lavori a casa (pensate a quelle classi 2.0 o 3.0) non si incentiva all’uso di dispositivi digitali ulteriori oltre allo smartphone personale già in possesso?
Forse, come paventavo prima, la circolare del Ministero è solo too much ado for nothing: una presa di posizione ideologica per accontentare qualche docente e qualche famiglia, barricandosi dietro citazioni di vari studi perché incapaci di attuare indirizzi politici in direzione educativa?
Può darsi.
Ma il punto qui non è schierarsi se proibire o no, come se fosse una partita di calcio. Non è una questione di “aver fatto bene” o “aver fatto male”. Qui, come sempre, bisogna riflettere su qual è la funzione della scuola in tutto ciò, su qual è il suo ruolo nel contesto generale in cui ci troviamo, dove sui dispositivi tecnologici possono passare le peggiori cose ma è innegabile che siano anche uno strumento ormai imprescindibile di comunicazione e condivisione.
Quindi, anziché proibire (che quello so’ boni tutti a farlo…a destra!) io credo che bisognerebbe riflettere insieme su come la scuola possa far sviluppare allə nostrə studenti, oggi immersə in tutto questo ma non per loro volontà, una critica dell’attualità in senso trasformativo.
Una possibile proposta potrebbe essere quella di portare nei momenti di auto-formazione, e poi successivamente nelle aule, la cultura hacker. Qui non intendo ovviamente il significato giornalistico che assimila l’hacker a una sorta di teppista informatico; piuttosto intendo la cultura hacker nel suo significato originario, ovvero di cultura capace di andare oltre le imposizioni limitanti delle aziende che dominano il mercato di Internet e dei dispositivi che pretendono di gestire la Rete in modo ufficiale. Se non abbiamo gli smartphone in classe decidiamo di trascurare per sempre questo aspetto e potrebbe essere, sul lungo termine, un grave errore.
Per fare questo io credo sia necessario riuscire a far interagire diverse energie di gruppi che da tempo si dedicano a queste tematiche e anche dedicarsi all’uso e alla sperimentazione di software alternativi e promuoverli nelle scuole. Si veda, per esempio, il gruppo C.I.R.C.E. che ha anche prodotto un libro dal titolo Pedagogia Hacker (autori: Davide Fant e Carlo Milani). Questo richiede, da parte di tuttə noi docenti anche, ne sono consapevole, un’immensa opera di decostruzione rispetto a molte delle cose a cui siamo assueffatə e che abbiamo dovuto accettare, senza avere il tempo di reagire, durante e dopo la pandemia da Covid-19.
È un lavoro complesso ma forse non più rinviabile. Le premesse della circolare ministeriale del 16 giugno sembrano avere una logica che pensa al tempo scolastico solo in termini di produttività, ben sapendo che tanto gli smartphone saranno acquistati lo stesso perché usati durante il resto della giornata. Quindi in realtà il risultato finale è un innesto ancora più profondo dellə studenti nelle logiche neoliberiste perché verrebbe a mancare – per proibizionismo – l’unico spazio sociale dove tantə adolescenti possono confrontarsi criticamente sul tema del digitale con un approccio pratico e tecnico. Proporre una cultura hacker potrebbe, perlomeno, sollevare il problema e aprire un fronte di alternativa.