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Tornare in famiglia durante le feste ha i suoi traumi per chiunque. Alcuni traumi sono vecchi, incancreniti ormai, altri sono nuovi. Oggi vorrei raccontarvene uno che, nel mio caso, è abbastanza recente, ma in realtà trova le sue fondamenta in argomenti di vecchia data.
Da qualche anno ormai sono vegano. È stato un percorso per me di fondamentale importanza e una scelta che mi ha cambiato la vita sotto ogni punto di vista, anche riguardo quegli aspetti che non avevo affatto considerato quando ho iniziato questo percorso. Nel corso degli ultimi anni la mia famiglia si è pian piano adeguata a questa mia decisione, anche se non l’ha mai accettata. Da cui il novello trauma.
Già perché la mia decisione di mangiare vegetale covava già da molto prima di diventare effettivamente prima vegetariano e poi vegano. Ma la storia personale di ognunə di noi ha un peso rilevante, sempre. Infatti sono nato in una famiglia che per generazioni ha vissuto di terra e allevamento, come la stragrande maggioranza delle famiglie della mia regione. Naturalmente le cose sono molto cambiate dagli anni Ottanta in poi e l’agricoltura, pur avendo sempre un importante peso specifico, ha comunque pian piano lasciato il passo a prodotti commerciali.
Nonostante questo, per i primi venti anni della mia vita ho sempre mangiato prodotti stagionali dell’orto, il pesce dal pescivendolo che veniva una volta a settimana in paese, la carne (e qui viene il trauma) dall’uccisione degli animali allevati in campagna dai miei nonni e dai miei genitori. Ovviamente c’erano ogni tanto delle incursioni non contadine, perché anno dopo anno una certa comodità ha pian piano soppiantato una cultura fatta per la maggior parte di fatica e lunghe attese: erano i tentacoli del capitalismo, ma io nella mia infanzia e adolescenza, senza fatica ignoravo tutto ciò, anche a causa del contesto piuttosto isolato in cui vivevo. Il fatto che poi nonni e genitori lavorassero in fabbrica aumentava le incursioni del capitalismo, perché il tempo per l’agricoltura si riduceva. Così, lentamente, sparirono le pecore e le vacche, quindi niente più latte e formaggi prodotti in casa. Mia nonna era anche solita fare il pane ogni settimana e per anni ho mangiato pane fatto nel forno a legna in campagna. Ma con il tempo anche questo artigianato si è ridotto fino a scomparire, a causa di stanchezza e fatica.
L’unica “tradizione” ancora in piedi è quella dell’uccisione del maiale.
Per anni ho odiato questa pratica, il sentire la sofferenza dell’animale e tutta la truce procedura che non racconterò qui. La cosa che per me oggi è sconvolgente è ripensare alla mia assoluta contraddizione dell’epoca: dopo aver visto soffire il maiale, tuttə andavano a fare colazione con prosciutto e soppressate. Per me, un’irrisolta vicenda fino a qualche anno fa.
In realtà poi quando andavo all’università riuscivo sempre a defilarmi dal partecipare al macabro rito, con la scusa di studiare per gli esami di gennaio. Tuttavia ero falso persino con me stesso perché poi mi cibavo dello stesso animale che altri avevano ucciso.
Se oggi, che sono vegano, ripenso a tutto ciò, non posso far altro che rimproverare la mia stupidità dell’epoca. Certo, oggi sono convinto che essere veganə non è una scelta semplice all’interno del contesto capitalista in cui viviamo. Non intendo nel senso di opportunità di mangiare vegano, ma intendo nel senso di percorso potenzialmente accidentato.
Quando esco con amicə a mangiare fuori, faccio la mia scelta vegana (fossero anche solo le patatine fritte o l’insalata) senza problemi. Quando lə mieə commensali ordinano piatti non vegani si sentono quasi in dovere di giustificarsi, ma io taglio corto: non sono vegano per convincerti, ma sono vegano perché sono convinto io. Voglio dire che a mio avviso ha senso essere veganə solo se si arriva a questa scelta attraverso un percorso cosciente e consapevole riguardo l’etica e il benessere animale e, in generale, una visione del mondo non antropocentrica. Non mi importa se ti dispiace di mangiare una cotoletta davanti a me perché magari mi arrabbio; preferisco che tu mangi la cotoletta perché dentro di te non vuoi che sia ucciso un animale per farti mangiare. Quest’ultimo aspetto mi sembra più interessante.
Ma torniamo alla famiglia, un attimo.
I pranzi e le cene delle feste sono naturalmente densi di piatti tradizionali onnivori. Io riesco, come dicevo, a organizzarmi la mia nicchia vegana e, addirittura, la nicchia spesso tracima nei piatti delle altre persone a tavola, le quali non lesinano complimenti a volte.
L’aspetto più fastidioso però non è che le altre persone mangino pesce o carne, ma è l’incapacità di vedere nella mia scelta delle ragioni serie. Sembra quasi, infatti, che il mio sia un capriccio, una scelta incomprensibile anche se tollerata perché mi vogliono bene. Qualcunə dirà che magari fosse sempre così. Avete probabilmente ragione. Tuttavia vorrei solo sottolineare come anche in un caso così favorevole la permanenza in famiglia risulta escludente e, a tratti, intollerante. Già, perché non si tratta solo di ciò che mangiamo insieme. Si tratta di allontanarsi da una tradizione che ha forgiato i nostri ricordi insieme, si tratta di chiamarsene fuori definitivamente. Probabilmente io sono fortunato, ho una famiglia piuttosto tollerante anche su questo aspetto. Ma è chiaro che non faccio più parte di una Storia, che per me si è conclusa mentre per il resto della famiglia continua.
Analizzando tutto ciò negli ultimi anni, mi sono reso conto che è stata proprio la Storia di cui facevo parte a farmi vivere nelle contraddizioni. Era normale empatizzare con l’animale ucciso e subito dopo mangiarlo. Doveva essere normale, altrimenti finiva la Storia. Quello che voglio dire è che molto spesso il veganesimo è visto come una cesura, un taglio netto con una Storia collettiva più grande del singolo ed è (anche) per questo che in alcuni contesti fatica a prendere piede. Anche perché, vi assicuro, dalle mie parti ci sono dei piatti vegani buonissimi, che poi sono quelli che trovo a tavola ogni volta che torno. Ma quei piatti sono accettati perché fanno parte anch’essi della Storia.
Nel frattempo sto invecchiando e, insieme a me, invecchia tutta la mia famiglia. È un processo che viviamo insieme e che si porta dietro più consapevolezza e più fragilità da gestire. In qualche modo, infatti, si riesce a convivere con le scelte di ogni persona, anche se appartengono a due Storie collettive differenti. Probabilmente neanche se tornassi indietro con una macchina del tempo sarei capace, da adolescente, di diventare vegano mentre ero immerso in quella Storia così potente. Ma va bene così, perché sono felice oggi di essere diventato vegano nel momento in cui ho realizzato per bene di volerlo diventare e per tutti i motivi etici che mi hanno spinto a farlo. Compreso il motivo che mi fa immaginare un mondo completamente diverso, quello dove la Storia, a un certo punto, cambia.