Aboliamo le interrogazioni a scuola

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Da quando insegno, uno dei miei più grandi crucci è sempre stato quello delle interrogazioni. Qualche anno fa ho preso una decisione drastica: non le faccio più.

Per cercare di farvi capire le motivazioni di questa scelta, parto dal punto in cui nascono tutti i traumi: l’adolescenza a scuola e, in questo caso, parlo della mia.

Una cosa che mi è successa quando ero studente

Ero in prima liceo scientifico, nell’anno scolastico 2000/2001. Io e il mio compagno di banco stavamo chiacchierando, chissà di cosa poi. Il prof di matematica, che i miei compagni di classe – qualora fossero iscritti a questa newsletter – ricorderanno sicuramente, mi chiamò per interrogarmi. Io, che fino a pochi mesi prima ero in una scuola media di paese, già stordito da tutto quello che stava accadendo (il pendolarismo ogni giorno, nuovi compagni che non conoscevo, nuove materie – il latino! – e quelle vecchie più difficili) mi alzai dal banco sapendo di essere stato colto in flagranza di “reato” e che il prof stava – innanzitutto – per punirmi con una interrogazione.

Ma poi, quel prof di quella materia: matematica. Era la mia materia preferita, fino alle medie andavo stra-bene, ma in quel momento preciso mi sentivo stra-scarso. Non avevo ascoltato una cippa di quello che aveva spiegato: che cosa mi stava per chiedere?

La domanda fu immediata: il quadrato di un trinomio, ovvero “come si fa (a+b+c) al quadrato?”. Rimasi di sasso: il prof mi stava chiedendo la regoletta che aveva appena spiegato, ma io non avendo ascoltato nulla non sapevo cosa rispondere in quel momento. Rimasi onestamente zitto, in silenzio. Il prof non perse tempo: mi mise 2 sul registro e me lo indicò pure per farmelo vedere. Mi aveva sistemato per bene. Mentre tornavo a posto, nel silenzio funebre ed empatico generale, non pensai a nulla.

Solo quando mi sedetti e guardai di nuovo alla lavagna quel trinomio da fare al quadrato ebbi un’illuminazione: OK, non avrei mai saputo a memoria la regoletta ma avrei potuto moltiplicare (a+b+c) per (a+b+c) in quanto ogni quadrato è il prodotto di una cosa per sé stessa. Argh, come avevo fatto a non pensarci! Sinceramente non ricordo di essere stato preoccupato per quel 2 in matematica sul registro (sapevo dentro di me che avrei potuto recuperarlo, dai), ma piuttosto sentivo dentro di me il tarlo di non aver trovato subito la via di fuga, eppure così evidente, da quel pasticcio.

Ho ripensato moltissime volte a quest’episodio da quando sono docente. A volte l’ho anche raccontato in classe perché mi sembra un’ottimo punto di partenza per criticare in modo costruttivo le interrogazioni di matematica (e fisica anche).

Alla fine di questo post sono sicuro che capirete perché vi ho raccontato tutto questo. Ma partiamo dall’inizio.

Perché esistono le interrogazioni?

Gran bella domanda. Qualsiasi docente vi dirà che le interrogazioni servono per testare la capacità espositiva di chi studia. Lo sai ripetere? Bene, allora hai studiato e, presumibilmente, capito ciò che hai studiato. Non fa una grinza, o almeno così sembra. Tra poco ci torniamo.

Altro aspetto non meno essenziale è: ti devo mettere un voto. Eh, già: regaz, io alla fine devo tirare fuori un numero quindi vi interrogo e stiamo a posto. Ti chiedo tre-quattro cose, tu rispondi e decido un voto, idealmente in base a una griglia appositamente redatta per la valutazione orale. Tu parli, io metto il voto. Non sono ammesse altre opzioni. Ciò che dice lo studente o la studentessa è oggetto di valutazione positiva se è corretto, di valutazione negativa se è sbagliato.

Dunque le interrogazioni esistono perché, banalmente, sono il modo più economico per verificare le capacità espositive di una persona. Il prof interroga e capisce subito se qualcuno ha studiato oppure no. Entrando più nello specifico, con la matematica è come sparare sulla Croce Rossa: se non hai studiato probabilmente si vede già da come cammini verso la lavagna.

Questa è la scuola che tutti e tutte conoscono.  Non deve essere per forza il paradigma della scuola, però. Questa è la scuola di film, serie TV, aneddoti, ricordi – anche ricordi di pochi anni fa, come si evince dal mio caso del 2 in matematica.

Io ora mi chiedo: è possibile criticare costruttivamente questa metodologia, almeno per quanto riguarda la matematica (e quindi anche la fisica)? Dai, proviamoci insieme.

Che cosa non va con le interrogazioni?

Dopo aver detto perché le interrogazioni continuano a esistere come se il mondo si fosse fermato in remoto passato. Nel senso che continuiamo a fare pratiche che non sono cambiate affatto. Ma le interrogazioni, a mio avviso, hanno diversi problemi, specialmente per quanto riguarda la matematica.

Primo problema: le interrogazioni sono come i calci di rigore. Se quel giorno, quell’ora, tu sbagli, è quel giorno e quell’ora che prendi un voto. Roberto Baggio è stato vittima di un’interrogazione…ehm di un calcio di rigore nel 1994, ma nessuno ha messo in discussione il suo reale valore.

Secondo problema: se interrogo oggi una persona ovviamente non la interrogo domani. Quanto può essere importante il tempismo di una interrogazione? Ancora ricordo, con orrore, estrazioni numeriche, sguardi ai giorni del calendario, numeri di pagina di libri aperti a caso e sommati altrettanto a caso solo per, sì, esatto, solo per interrogare te! Ma supponiamo che ti abbia interrogato oggi: sarebbe davvero ingenuo pensare da parte mia, il prof, che tu studierai matematica anche domani. In fondo, perché dovresti? Onestamente dico, chi te lo fa fare! Sarai interrogato tra due mesi, hai mille altre materie da studiare…caspita sembra già di essere all’università certe volte. Sapete che vi dico: non ha alcun senso didattico tutto ciò.

Terzo problema: su cosa interrogo? Partiamo dagli esercizi per casa…ma dove finiamo? Oppure, prendiamo questo esercizio che mi piace molto…a te, prof, ma a me studente proprio per niente! E poi, a Saverio, prof hai dato un esercizio nettamente più facile. Come se ne esce? Non se ne esce! Si interroga per il voto, e il voto serve sia al prof per la sua collezione quadrimestrale sia allo studente per districarsi nel ginepraio in cui si è infilato dal 15 settembre.

Quarto problema, il peggiore: le interrogazioni producono ansia, angoscia, sofferenza. No, non esagero per niente: è così. Essere lì, sulla graticola a rispondere domande è una tortura. I prof potrebbero obiettare che “ehi, ma la vita è così, gli esami non finiscono mai”. Sarà pur vero, per carità, ma ha un senso didattico? Siamo a scuola a imparare matematica o siamo all’Università della Vita? Entriamo ogni giorno a scuola solo per capire come soffrire da grandi?

Sarò ingenuo, ma io immagino la scuola come punto di partenza per creare un mondo nettamente migliore, non come palestra per allenarsi a sopravvivere al pessimo e diseguale mondo attuale. Inoltre, inutile girarci intorno, ma ansia, angoscia e sofferenza – anche se nel migliore dei casi prodotti dall’inconsapevole (fino a un certo punto) Prof. Sièsemprefattocosì Quindichevuoidame – sono espressione di una relazione di potere autoritario totalitario e tremendo. Il prof ha potere totale.  E il potere, come fa dire Orwell al personaggio di O’Brien in 1984, si pratica attraverso il terrore e le umiliazioni. Il prof di matematica poi, che te lo dico a fare: ha sempre la domanda pronta per metterti in difficoltà, lo sanno tutti e tutte. E se ti capita la domanda sfigata, nell’ora sfigata, nella giornata sfigata della tua settimana sfigata, beh, c’è poco da fare: la scure dell’autoritario dittatore si abbatterà su di te e sul Registro Elettronico (e la tua famiglia probabilmente lo saprà già prima che tu possa tornare a casa…).

Concludo…

Le interrogazioni, in sostanza, sono praticamente anti-democratiche. È questo il punto cruciale, ovvero l’essere intrinsecamente contro una educazione democratica. Ecco perché bisogna ripensare profondamente a questo aspetto: se si vuole fare una scuola diversa, ribaltiamo tutto.

Le interrogazioni insomma esistono solo per la formale trebbiatura dei voti. Eppure, in una scuola democratica ogni giorno si parla e si interagisce tra prof e studenti. Nulla vieta (anzi!) di prendere nota di ciò che accade, dare in feedback e, alla fine dopo un’attenta fase di osservazione e dialogo, tirare fuori una valutazione condivisa su dove si è arrivati insieme nel percorso. Solo questo tipo di processo può portare all’apprendimento. Con le classiche interrogazioni siamo di fronte a una scuola rafferma, capace solo di riprodurre il passato. Invece il sogno è una scuola capace di trasformare il presente in senso critico e, oserei dire, quasi rivoluzionario. La logica della trebbiatura formale dei voti è ovviamente legata a un’idea di scuola chirugica, dove ogni cosa è misurata in momenti topici in cui avviene la costruzione del proprio profitto da depositare in pagella. Questa idea di scuola meccanica, praticamente aziendale nei tempi e nei modi, è da rigettare in toto.

Le interrogazioni non fanno altro che alimentare il meccanismo della meritocrazia. Ma il substrato su cui si fonda il nostro sistema educativo è già profondamente diseguale e quindi l’approccio meritocratico non fa altro che riprodurre queste disuguaglianze, come ben spiega Mauro Boarelli nel suo libro Contro la meritocrazia.

Cambiare in senso democratico la scuola attuale, di tutti i giorni, pervasa dall’idolatrata ideologia del merito, è difficile da realizzare ma non impossibile. Quando ci chiediamo “Ma da cosa inizio per cambiare qualcosa?”, nove volte su dieci la risposta alla fine è sempre: da ciò che si fa da sempre allo stesso modo.

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